Lana Del Rey E Lamore Violento
«Ultraviolence». Titolo perfetto per un album metal, combat rock o gangsta rap (a seconda di come uno vuole interpretare la parola violenza). Sorprende trovarselo stampato a fianco del viso (e sulle curve) di una bambola malinconica come Lana Del Rey che lo ha scelto come titolo del suo secondo album, in uscita il 17 giugno. «È vero — ride la 27enne cantautrice americana —. Amo il metal, ma in questo caso mi piaceva l’impatto di una parola seducente come “ultra” vicino al suono della parola “violenza”». Un concetto, quello della violenza, da legare alla sfera fisica o a quella psicologica?
«Negli ultimi due anni ho più volte percepito nell’aria dei segnali di aggressione. E così ho capito che la violenza può anche essere una cosa emotiva. Nelle relazioni però a me piace anche avere una forte fisicità. Quindi penso che dipenda dalla situazione… ma per me incarna la parola passione».
Nelle relazioni però la violenza per una donna è una tragedia non è una scelta. «Penso che dipenda dai singoli, ognuno ha un proprio standard per decidere se mantenere o meno un legame di coppia. Ed è diverso per ciascuno. Amo le donne. E voglio che tutti possano avere una sana e solida relazione». Frasi ancora più pericolose di quelle pronunciate alla rivista americana Fader e che le hanno attirato le critiche di molte donne. «Per me il tema del femminismo è di scarso interesse — aveva detto —. Sono più interessata, chessò, alla SpaceX o Tesla (i progetti di viaggi spaziali e auto elettriche di Elon Musk ndr ), a quelle che saranno le nostre opportunità nella galassia. La mia idea di vera femminista è una donna che si sente abbastanza libera di fare ciò che vuole». «Ultraviolence» si porta sulle spalle la pressione di replicare il successo del precedente. «Born to Die», pubblicato nel 2012, ha venduto circa 6 milioni di copie nel mondo. Come produttore questa volta è stato chiamato uno dei personaggi übercool del mondo rock, Dan Auerbach dei Black Keys: «Il disco si ispira alla West Coast americana, ma ha un gusto East Coast. Amo entrambe — racconta lei —. Sono nata a Est, ma la California in questi anni è stata una specie di fuga per me: vado in spiaggia e mi sembra di galleggiare ai limiti del mondo. Sotto sotto nel disco ci sono anche influenze jazz».
Il successo di Lana era arrivato assieme alle critiche. Molti la vedevano come un personaggio costruito a tavolino. A partire dal nome. Quello vero è Elizabeth Grant ma lo aveva abbandonato dopo che il suo primo disco era passato inosservato. E il fatto di essere figlia di un magnate del web aveva fatto pensare a chissà quali strategie Internet per lanciare un’artista più di plastica delle sue stesse labbra. Magari è anche stato così, ma le sue canzoni avevano spessore: immaginario da noir Anni 50, archi sognanti e ritmiche hip hop. «Sono rimasta colpita dalle critiche. Sono una che interiorizza. La mia carriera riflette più la storia del giornalismo che non quella della mia vita. La gente scrive quello che altri pensano di me invece di parlare di quello che dico nelle canzoni». Una delle nuove si intitola «Money Power Glory». Meglio i soldi, il potere o la gloria? «L’ho scritta in modo sarcastico. Quello che cercavo col primo disco era il rispetto mentre sentivo che quello che mi veniva concesso da molti era poter fare soldi, avere gloria ma non come intendo io, o prendermi i loro insulti».
La sua vena malinconica esce tutta in «Sad Girl». Si vede così. «Ho i miei momenti di tristezza. Cerco sempre la speranza nelle cose, sebbene alla fine senta sempre che c’è un elemento di malinconia che scorre nella mia vita». Adolescenza turbolenta la sua. È finita pure in rehab. In «West Coast» usa un modo dire che più o meno suona così «se non bevi, non ti diverti». «Sento ancora la tentazione di uscire ed essere un po’ selvaggia — confessa —. La California è un posto incredibile: fra personaggi e party Los Angeles è una fonte ispirazione. Mi piace uscire e fare follie, ma cerco di stare “sana”». In «Florida Kilos» si parla di spacciatori: «Mi ha ispirato un documentario che si chiama Cocaine Cowboys che parla dei trafficanti a Miami negli anni 70. Mi attirano quelli che usano metodi illegali per avere ciò che vogliono. Quando ero una ragazzina pensavo di avere il diritto di avere tutto ciò che desideravo a qualsiasi costo. Mi piace l’idea di arrivare in cima con il tuo metodo, che sia legale o illegale». L’ultima cosa illegale che ha fatto? «Gliela direi, ma finirei nei guai».
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